Ritiro Parrocchiale predicato dal Vescovo
27 Novembre 2011
Il titolo della nostra conversazione è abbastanza inusuale. Come è immaginabile, è stato dettato dalla sagace fantasia di don Felice nella forma di un tracciato simbolico, quasi di un pellegrinaggio familiare, con una partenza, una meta e un ritorno. E come in ogni approccio simbolico, si è liberi di scavare-enucleare molteplici significati e trarre fruttuose considerazioni di ordine spirituale in linea con i dati essenziali del percorso e con il “sensus fidei” ispirato e sostenuto dallo Spirito Santo.
E ciò dico non per concludere dunque che “tutto fa brodo” e ogni “discorso” va comunque bene, ma per risvegliare in noi l’attenzione interiore e l’ascolto profondo dell’ispirazione che scende dall’alto e feconda il nostro pensiero e muove il nostro cuore. Dobbiamo essere sempre disponibili a ciò che Dio ispira dentro l’anima – Dante direbbe che “ditta dentro” – soprattutto quando ci si situa nel solco delle Scritture e si è in cammino.
Si tratta allora di assecondare uno sguardo contemplativo sul “come” Dio si rivela all’uomo – e nel nostro caso alla “famiglia” – per lasciarsi “istruire” dalla “rivelazione” del progetto che Dio coltiva per ognuno di noi, comunicando come si prende cura dell’umanità “dispersa” e “immersa nelle tenebre” (Lc 1, 79). Se comprendiamo l’agire di Dio nel tessuto delle cose e delle relazioni umane, risulta più evidente la sua volontà anche riguardo a noi e alle nostre famiglie.
Da Betlemme: Dio si fa uomo
Intanto posiamo gli occhi su Betlemme. Che cosa suggerisce questo “luogo” dello spirito? Quale suggestione promana? Quali ricordi suscita nella nostra anima? Come è noto, Gesù nasce a Betlemme. Egli stranamente non ritorna più sul luogo della nascita. E’ probabile che l’interesse degli evangelisti (e delle prime comunità apostoliche), si sia subito spostato altrove dal punto di vista geografico. Di fatto, dopo gli antefatti di Betlemme, i trent’anni nascosti a Nazaret e gli inizi della predicazione in Galilea, lo sguardo della fede si concentra nello scenario unico e assoluto di Gerusalemme.
Se assumiamo il punto di vista degli sposi di Nazaret, Betlemme ricorda ben poco ed è configurata in una località marginale. Per loro Betlemme corrisponde solo ad un luogo davidico, secondo una memoria genealogica che risale alle origini del loro “casato”. Dunque si conosce come la sede “civile” di registrazione ai fini del censimento imperiale. Tuttavia essi stessi scopriranno, in un crescendo di stupore, che Betlemme non è un semplice luogo d’anagrafe.
In realtà risalire a Betlemme significava per loro riscoprire le “radici”, ciò che sta all’inizio di una “promessa” che veniva da lontano e dall’alto. Come in un pellegrinaggio quasi ancestrale, si immergono in una vicenda umana e familiare segnata da Dio, e dunque si innestano nel filone di una storia che poi, alla luce della fede, verrà denominata “storia della salvezza”.
E qui si può già intravvedere qualche cosa di misterioso e di grande, superiore alla loro immaginazione. Dalle Scritture ascoltate, rilette e commentate nella sinagoga del paese, Giuseppe e Maria, lungo il viaggio verso Betlemme, avranno ripassato nel ricordo il vaticinio del profeta Michea: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele” (Mic 5. 1, citato da Mt 2, 6). Di fatto le “citazioni” non sono mai pura coincidenza e assonanza.
Anche per i genitori di Gesù il richiamo profetico non si esaurisce semplicemente in una citazione erudita, ma esprime qualcosa di molto più allusivo: come un segno indicatore che svela un’intenzione di Dio. I “segni” sono sempre importanti nella storia della fede. Essi pongono in evidenza la continuità di un’alleanza e di una presenza attiva, che vanno oltre la consapevolezza dei soggetti. Per dire che tutto ciò che accade – a loro come a noi – prefigura nella visione provvidenziale della storia eventi portatori della speranza messianica (cfr. la “teologia della storia”).
Val bene annotare inoltre che Gesù non è riconosciuto dall’opinione pubblica del suo tempo come “betlemmita”, ma come “nazareno” (cfr. Mt 2, 23). Ciò significa che non sono sufficienti le origini biografiche o le “radici” umane per identificare una persona: intervengono altri fattori di conoscenza e di identificazione. Di fatto Betlemme è sì una radice, ma non è tutta la radice, definitiva ed esaustiva della personalità di Gesù. Di fatto non dimentichiamo che la “dimensione di umanità” di Gesù non esprime la totalità della persona di Gesù. Lui viene dalla “radice di Jesse” (betlemmita e padre di Davide), ma ciò non esaurisce la sua “identità” che rimanda ad altro livello, cioè alla sua filiazione divina (cfr. Annuncio a Maria, Lc 1, 26-38).
Risalendo a ritroso, verso le origini della vita di Gesù, si arriva dunque a Betlemme. Nelle Scritture del tempo dei Patriarchi, Betlemme emerge dalla memoria di Israele come la terra dove viene seppellita Rachele, la sposa di Giacobbe (cfr Gen 35, 16-20 e 48,7) e che Matteo richiama (Mt 2, 17-18) in riferimento alla strage dei bambini per opera di Erode:“Un grido in Rama si è udito, lamento e pianto d’amarezza! Rachele piange per i suoi figli”. L’evangelista evoca, collegandolo al passo di Ger 31,15, un oracolo nel quale si intravvedono eventi tragici per la sorte del popolo di Israele.
Di qui viene da pensare che la tragedia sia legata a questo piccolo villaggio. Al riguardo nel libro dei Giudici (19, 11-30) è ricordato un orrendo delitto consumato su una concubina di Betlemme da parte dei Beniamiti. Ancora una volta Betlemme è assunto come luogo di misfatti (cfr. AA.VV. Le immagini bibliche, ed. San Paolo, Milano, 2006, voce Betlemme, p. 194).
E nonostante questa nomea tragica, Betlemme nella tradizione biblica è ricordata soprattutto perché patria di Davide (cfr 1 Sam 17, 12.58; Gv 7, 42). Infatti in questo territorio il sacerdote Samuele sceglie il figlio di Jesse e lo unge re (1 Sam 16, 1-13). Qui è anche ambientata la vicenda di Rut, la Moabita, che sposa in seconde nozze Booz originario di Betlemme, incontrato nei campi mentre spigolava il grano dietro ai mietitori (cfr Rut, 1-2). Il riferimento del grano ci rivela che Betlemme significa “casa del pane”. Il profeta Michea, nel vaticinio citato, parlando di Betlemme, allunga lo sguardo al futuro discendente di Davide come dominatore e messia, capo e pastore, proveniente appunto da Betlemme, “così piccola per essere tra i villaggi di Giuda” (Mic 5, 1).
Di qui si sviluppa quella valenza tipologica tragica e regale di Betlemme che sarà colta dagli stessi evangelisti. Così Betlemme assurge a villaggio testimone di morte, nel contempo diventa origine e attuazione della speranza messianica, della gioia universale a motivo della nascita del Messia e infine fa di riferimento essenziale per apprendere il messaggio del “Vangelo dei piccoli”.
In tale carico di significati Betlemme, ultima tra le città della Giudea, acquista una straordinaria posizione di primato, secondo il detto del vangelo che “i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi” (Mt 20, 16) e passerà alla storia non solo e non tanto di Israele ma del cristianesimo, costituendosi punto di partenza per i tempi nuovi del compimento delle promesse. La “piccolezza” vince sulla potenza: è “ciò che è debole che per il Signore diventa forte” (cfr 2 Cor 12, 10).
Dunque andare a Betlemme non designa una casualità, anche se scegliendo Betlemme, Maria e Giuseppe non pensano di rispondere ad un’esplicita chiamata di Dio. Essi lasciano Nazaret assecondando solo un ordine del potere degli uomini. In obbedienza civile, sottostanno alle leggi e alle disposizioni dell’imperatore di turno. Si vorrebbe insinuare che i genitori di Gesù non scelgono “l’obiezione di coscienza”, ma si collocano nel flusso delle circostanze più grandi di loro. Di fatto sono rispettosi e seguono la legalità ufficiale.
Si comprende allora che “andare a Betlemme” sprigiona significati più nascosti. Essi vanno ricercati negli intrecci che intercorrono tra i fatti, gli eventi e le persone protagoniste. E’ necessario perciò abituarsi a “guardare oltre” le semplici apparenze e le circostanze per saper cogliere il filo rosso di una rivelazione, di un disegno provvidenziale. E’ infatti nella semplicità e nella piccolezza di Betlemme che si va per contemplare l’evento dell’incarnazione, l’avvenimento che cambierà la storia del mondo.
Annunciato nelle loro case di Nazaret a Maria e a Giuseppe, sia pure in diverse e complementari modalità, l’evento, o meglio l’avvenimento dell’incarnazione accade a Betlemme. Ciò ci costringe a “vedere” il dispiegarsi dell’accondiscendenza di Dio tesa a istruirci su “Chi è Gesù”, apparso nella forma umana pur essendo Figlio di Dio (cfr. Fil 2, 6-11), visibile nell’umiltà disadorna di Betlemme, insieme, come è stato detto, tragica e regale. Secondo l’imperscrutabile disposizione di Dio, la nascita di Gesù si manifesta nel “segno” di un bambino “normale” (cfr Lc 2, 12). E tuttavia i “contorni” della nascita rivelano la sua radicale “diversità”, evidenziata e disposta dai racconti che riguardano i genitori, perché a loro sia resa evidente la comprensione del “mistero nascosto da secoli” (Ef 3, 9) attraverso “filtri” di gloria.
Nell’economia delle nostre riflessioni sono le figure genitoriali a prendere rilievo perché più direttamente capaci di interrogare l’identità, il ruolo, le funzioni proprie dei genitori. Nei racconti di Matteo e Luca (cfr i Vangeli dell’infanzia propri di Luca e Matteo), Maria e Giuseppe appaiono, o dovrebbero apparire, come “persone informate dei fatti”, anche se non compiutamente.
Essi in realtà vivono un’esperienza di cui conoscono a mala pena gli “estremi”, attraverso l’annuncio a Maria e il sogno a Giuseppe, ma non ne percepiscono con esattezza i contenuti, le prospettive, gli esiti. I loro occhi “vedono” e “non vedono”, la loro intelligenza intuisce ma non comprende. Come succede anche a noi credenti: “viviamo nella fede e non ancora in visione” (2 Cor 5, 7). Si attua una “iniziazione” ai “divini misteri” che crescerà nel tempo e nella fedeltà.
I genitori Maria e Giuseppe sanno che il bambino sta nascendo. Si preoccupano dunque di escogitare soluzioni organizzative e pratiche; cercano il meglio e poi si adattano alle circostanze. Non fanno tragedie per la precarietà del luogo; non imprecano né contro l’imperatore di Roma, né contro l’inospitalità degli albergatori di Betlemme, né contro la malvagità dei tempi. Sono sereni perché si fidano della fedeltà di Dio e appartengono al popolo dei “poveri” e più esattamente alla categoria dei “poveri di Javhè”.
Ciò deriva dal fatto che sono stati educati dalla Parola dei profeti e dei loro maestri sinagogali e dunque sono preparati nello spirito. Dalla frequentazione dei salmi hanno appreso il senso dell’abbandono. Sono istruiti dai racconti edificanti delle Scritture e dunque non temono contrattempi e trappole. Tutto quanto accade li coglie nella disponibilità e nella fiducia.
A Betlemme imparano la vita di coppia, come ci si deve ingegnare senza aspettarsi troppo dagli altri indaffarati, come uscire dall’imprevisto e affrontare le difficoltà, come adattarsi nella strettezza della vita, come organizzarsi quando nasce un figlio, come sovvenire da parte dello sposo la sposa in stato di partoriente: si avverte come la necessità acuisce l’ingegno e si nota come non manchi il senso della provvidenzialità.
Lontani dai parenti e dagli amici, sconosciuti in un paese estraneo ai loro orizzonti, i due sposini sbarcano il lunario con dignità e sobrietà, abituandosi ad uno “stile di vita” essenziale, secondo il loro stato sociale di poveri. Forse colpiti da una certa indifferenza della gente, non disdegnano di arrangiarsi in luoghi di emergenza.
E tuttavia non sono soli. Arrivano nell’evento i “pastori” (cfr Lc 2, 8-20). Sono un genere di sodali che si prestano a soccorrere i due genitori sprovveduti e ignoti, eppure così simili a loro. Come i Magi (cfr Mt 2, 1-12), i pastori sono i “lontani” che diventano i “vicini”. Sono i “volontari” ispirati da Dio che portano il necessario e si rendono testimoni dell’evento, secondo i principi-valori della gratuità e del dono operati in pura perdita e con gioia piena. Maria e Giuseppe si meravigliano e riflettono sui fatti che accadono tanto che ricorderanno per sempre quei giorni, quegli eventi straordinari e imprevedibili, quelle figure mattutine che sono convenute al luogo della nascita del loro figlio e lo racconteranno ai primi discepoli del Signore con cenni essenziali e ricchi di sapienza e di memoria veterotestanentarie.
Ma a Betlemme sopraggiungono anche rischi e prove drammatiche (cfr. Mt 2, 16-23), come era scritto nella “storia” del paese. La strage degli innocenti fa entrare in scena le sventure derivate dal potere politico, sempre in competizione e pronto a qualunque costo di vite umane pur di salvare gli interessi e gli appetiti oltre a qualsiasi giustizia e dignità. I potenti disprezzano il popolo e ne usano per i loro fini.
Dunque la famiglia di Giuseppe, Maria e Gesù sperimenta la durezza e i crimini di un potere forsennato e feroce, senza scrupoli e senza remore. Sulla loro pelle vivono l’esperienza dell’esilio (cfr. Mt 2, 13-15) e la traversata del deserto per trovare una casa accogliente in terra straniera. Fuga dalla patria, rifugio in qualche tenda, ricerca di un suolo, di una sopravvivenza e di un approdo.
Possiamo sintetizzare così l’“andare a Betlemme”: l’approdo casuale della coppia di Nazaret nel villaggio ultimo della Giudea prefigura lo stile dell’agire e la stessa volontà di Dio nel modo e nel luogo dove accade la nascita del “Figlio di Dio”, luogo di sofferenza, di morte, come di gioia e di speranza. I genitori, veri “poveri di Javhè”, percepiscono così di essere sotto la mano creatrice di Dio che attua le promesse messianiche mediante la loro disponibilità. Umili e poveri, essi accolgono la Parola con semplicità di cuore, rendendosi strumenti docili a Dio e a lui sottomessi. A Nazaret: Dio “educa” il Figlio
Nel tempo stabilito la famiglia rientra a Nazaret. Si riprende una vita semplice, si ricomincia una vita di famiglia. Stabilirsi al loro paese sarà stato motivo di esultanza, ricordando i salmi del loro popolo cantati nell’esodo e poi ripresi nella deportazione a Babilonia e fino al ritorno a Gerusalemme. Memoria di eventi vissuti nel dolore e nella gioia. Si può immaginare che la vita a Nazaret scorra secondo la normalità, ma altresì ricca di presagi, di futuro tutto da scoprire e da vivere. Il paese è collocato sulla “via del mare” dove passano mercanti e religioni, eserciti e culture, un territorio battuto da flussi orientali, da stili di vita diversi, voci e volti sollecitanti.
In tale contesto socio-culturale Luca annota, con uno stile quasi cronachistico, ma denso di significati, che “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Lc 2, 40). In realtà Luca traccia un abbozzo dell’identità di Gesù, in un ambiente familiare cadenzato dai ritmi del paese, sottolineando alcuni aspetti della sua personalità divino-umana. Ne segnalo tre.
Anzitutto Luca intende mostrare come la “crescita” umana di Gesù si sviluppi secondo le leggi della natura, secondo le consuetudini della Galilea, e secondo la tradizione della cultura ebraica. Si avverte un vero apprezzamento dell’umanità di Gesù nelle fasi di consolidamento generazionale e una sottolineatura della sua immersione nelle tradizioni, negli usi e nei costumi del suo paese, secondo quella sapienza popolare propria dell’ebraismo del suo tempo.
In secondo luogo il bambino Gesù non è diverso dagli altri per la configurazione evolutiva della persona. Passa infatti attraverso i gradi biologici e psicologici dello sviluppo. Tuttavia l’osservazione verbale “si fortificava” indica le modalità non tanto riferite ad un irrobustimento fisico, ma alla consapevolezza interiore, con la caratteristica del tutto constatabile della “sapienza”, nella forma della “pienezza”. Ciò rivela il dato di originalità inconfondibile e insinua come la “scuola di Nazaret” avvii ad un’autentica iniziazione nella conoscenza di Dio attraverso la storia del suo popolo.
In terzo luogo Luca sottolinea che “la grazia di Dio era su di lui”. L’annotazione dice uno stacco di qualità intrinseca, che lo differenzia dagli altri ragazzi, pertinente all’essere di Gesù (dato ontologico), atto a svelare la sua divinità derivata da Dio stesso in quanto “Figlio di Dio”. Non era dunque un ragazzo qualsiasi: in lui agiva un principio, distintivo rispetto agli altri, di carattere soprannaturale, trascendente. Luca intende introdurci nel mistero di Gesù, nella sua relazione filiale con il Padre.
Questi tre aspetti “esploderanno” nel viaggio-pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme (Lc 2, 41-50), vera rivelazione prefigurativa degli eventi della salvezza. Le varie fasi del racconto di smarrimento e di ritrovamento sono disposte infatti al fine di condurre l’uditore-lettore verso l’apice della narrazione che si colloca nella dichiarazione di Gesù come inviato dal Padre e destinatario di una propria missione.
Le tre dimensioni accennate di nuovo vengono ribadite nella ripresa lucana della vita a Nazaret: “Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (cfr. Lc 2, 51-52). Nel riassunto sintetico della vita della famiglia di Nazaret, Luca ne sottolinea l’unità, accenna alla “sottomissione” di Gesù per avvertirci del suo “essere figlio” nella linea dell’umanità. L’inciso che riguarda la “madre” denota il ruolo speciale di Maria nell’“economia della salvezza” e nel suo cammino personale di fede.
In realtà l’insieme dei “racconti nazaretani”, riportati da Luca, ci insegnano che il tempo, lo spazio, la vita a Nazaret coincidono da una parte con un disegno provvidenziale che si inscrive nell’alleanza tra Dio e l’uomo e dall’altra con un periodo di “incubazione” dell’atto finale della redenzione predisposto dal Padre per il Figlio suo Gesù Cristo. Nel nascondimento di Nazaret matura la vocazione di Gesù, percepisce il suo “io” profondo, il suo mistero prende corpo, la sua missione compie i primi passi. Infatti c’è un tempo per ogni cosa in modo che Gesù “incorpora” gradualmente l’intera storia del suo popolo. C’è un territorio da esplorare alla luce di Dio, dove già si sono svolti i gesti, le vicende, i rapporti di Dio con Israele. C’è una vita da conoscere, educare, istruire, imparare per la futura missione del Figlio di Dio.
In tal modo Nazaret rappresenta le “radici” di Gesù, come Betlemme per Maria e Giuseppe, con gli elementi abituali di identificazione, quali la casa, la religiosità, gli affetti, la fede, le relazioni. Su queste basi si edifica la vita futura, dalle quali prendere il largo (cfr. Franco Giulio Brambilla, Perché mi cercavate? Famiglia e vocazione, in Rivista del Clero Italiano, 7/8, 2009).
Possiamo sintetizzare i diversi insegnamenti tratti dal “mistero” di Nazaret (cfr. Paolo VI, Discorso a Nazaret, 1964): la vita di Nazaret apre la mente e il cuore ad una visione trascendente della vita, guidata da Dio, illuminata dalla rivelazione, accolta nella semplicità di un contesto familiare, storico, culturale e sociale. La vita non è mai fenomeno casuale ma rivela una vocazione e prospetta una precisa missione. In tale dinamica divino-umana, la famiglia di Nazaret adempie alla sua naturale funzione, ma nel contempo la trascende. Di fatto la famiglia è “tramite” del disegno di Dio e si inserisce nella “storia della salvezza”, come storia di morte e di resurrezione. E ritorno Il percorso da Betlemme a Nazaret richiede un epilogo. Non è così. Da Nazaret infatti si riparte per un “ritorno”. Ma verso dove? Non certo verso Betlemme, villaggio che ha esaurito la sua missione. Il viaggio della salvezza porta verso Gerusalemme. Là si svolge il compimento della vita di ogni profeta, là si conclude ogni pellegrinaggio di vita, là finalmente si adempie la volontà di Dio.
In realtà è Gerusalemme il fine del ritorno. Perché rappresenta il luogo della divina presenza, dove Gesù attua il dono di sé e la definitiva consegna al Padre. Qui si realizza il destino di gloria del Figlio di Dio, crocifisso e risorto, per la salvezza dei singoli e delle nazioni. Il nostro viaggio “Da Betlemme a Nazaret e ritorno” approda a Gerusalemme e qui scopriamo, con luce incandescente, il senso ultimo della nostra vita, redenta da Cristo, e delle nostre famiglie, luoghi di vera comunione con Cristo, sposo della Chiesa. E ultimamente acquista senso compiuto la vicenda umana, totalmente assunta dal Cristo, che si dispiega tra esperienze di “tragedia” e di “esultanza” come dall’evento della croce fino allo splendore della Pasqua.
+ Carlo, Vescovo